lunedì, febbraio 27, 2012

L'insoddisfazione di Viola

Cosimo era su una quercia. Lei si fermò sotto, in un prato.
- Sono stanca.
- Di quelli?
- Di tutti voi.
- Ah.
- Loro m'hanno dato le più grandi prove d'amore...
Cosimo sputò.
- ... Ma non mi bastano.

(Italo Calvino - Il Barone Rampante)

venerdì, febbraio 24, 2012

Quando non vuoi dire niente, succede così

Questo potrebbe essere davvero il momento migliore per scrivere.
Dopo che hai vomitato sangue sulla tua stessa faccia, potresti raccogliere le idee, riformularle ed evitare di esplodere, creando un nuovo ascesso.
Magari prima di fare qualunque cosa, prendi il fazzoletto accanto e pulisciti il viso. Gli occhi, almeno.
Ferma i pensieri, che corrono come un cucciolo di cane, liberato dopo esser stato rinchiuso per chissà quanto tempo in un'angusta, gelida gabbia, mentre attendeva, chissà cosa. La sua morte, forse, come tutti del resto.
Convogliali più in là, questi pensieri: qui c'è ancora troppo baccano.
Senti la tua voce che continua a ripetere le stesse parole, che non trascriverai perché quelli, almeno quelli, sono solo affari tuoi.
E poi rileggi, ancora, ancora, e ancora, e ti fa sempre più schifo tutto quello che finora hai scritto.
Non ha il suono che ti eri immaginato, nemmeno lontanamente. Non ne ha lo stile ed il tema, auspicati. Non sembra neppure la sagoma scura di quello che volevi creare. E' solo una pallida ombra, color del pavimento, inesistente; è solo un altro aborto, nato da una madre senza cuore, incapace di provare amore e compassione; è un'altra piccola bieca entità che verrà riposta nel più remoto angolo del tuo cuore.
Ma devi scrivere, non puoi mica lasciare intonso questo muro del pianto?
Vuoi davvero lasciar morire di tedio l'ennesimo aborto, già morto?
Altrimenti ti appelli come incostante ed incoerente, e sei la solita doppiogiochista: colei che non sa scegliere cosa essere e cosa avere. E così è, ed ha, tutto e niente.
Non è un proposito il tuo, lo sappiamo, non te ne rammaricare.
Sei un caso patologico, per questo ti commiseriamo; e abbiamo di te pietà; e proviamo pena, nel guardarti: povero piccolo essere; ambiziosa nullità desiderosa di una vita mediocre, consapevole di non valere dieci lire.
Bei tempi, che non ho nemmeno vissuto. Ma è mainstream dire "bei tempi". Anche dire mainstream è, ormai, mainstream, ma non vogliono ammetterlo. Mah.
Allora, tornando al discorso iniziale, che non esiste, di cosa vuoi parlarci questa volta?
Probabilmente di niente, ma sono riuscita, arrancando, ad arrivare alla meta, trattenendomi dall'insensato impulso di chiudere l'ennesimo blog.

Ipocrisia

Ammettiamolo, per piacere: occorre sincerità in questo fottuto pianeta.
Possibile che tutti debbano sempre mentire spudoratamente?
- Mi piace un sacco quello che hai cucinato! (anche se è tutto bruciato)
- Ti sta benissimo questo taglio di capelli. (ma non l'avevo notato prima che tu mi chiedessi: "Come mi stanno i capelli? Li ho tagliati oggi!")

Smettiamola, per piacere, con tutta questa blanda ipocrisia da quattro soldi. Capisco, me ne sono resa conto quando mia mamma mi ha detto per la prima volta: "Tu non stai tanto bene col cervello, figlia mia", di aver perso il barlume di intelligenza che illuminava il mio cammino quando ero una piccola creatura indifesa, ma così mi sembra veramente deridere gratuitamente il mio senso critico, che si è acuito, invece, con la vecchiaia.

Tagliamo questo filo spastico che ci unisce, fatto di menzogne e frasi di circostanza: ha davvero una motivazione, la sua esistenza, al giorno d'oggi?
Compiacerci del tentato imbroglio non ci renderà migliori, né furbi.
Non ci renderà saggi, né oculati. Ci renderà solo dei gran figli di puttana.

Il mio sorriso, con i miei canini appuntiti, enormi, rispetto alla prospettiva creata dagli altri denti, è come un calzino sporco e bucato, fissato con una spilla da balia ad un vestito nero, tirato a lucido e terribilmente sexy.

E i miei occhi? Vogliamo parlarne. Merda. Merda totale: dal colore alla forma, all'espressività al contorno.
Trasudano dell'essenza della mia anima: l'emblema del vuoto.

giovedì, febbraio 23, 2012

Come t'ammazzo la poesia in due semplici mosse

Augurarsi la morte, lo facciamo tutti.

- A me piacerebbe morire senza rendermene conto, mentre sono a letto e dormo. Muoio, e non me ne accorgo. E non provo dolore. E non piango. E' fantastico, non trovi?

- A me piacerebbe morire guardando negli occhi la persona che amo. L'ultima visione, prima del nulla, sarà lo sguardo che mi ha rubato il cuore e il cervello. La mia anima la ruberà la morte, ma la salverà la sua, quando mi raggiungerà.

- Io voglio morire scopando!

- Ma come sei truce e materiale!, sei veramente disgustoso.

- Ma stai scherzando?! Non esiste nemmeno lontanamente una morte migliore di quella! Immagina la scena: scopi, magari sei sopra e spingi come un coniglio in calore, ingrifatissimo. Gemi come un disperato. Ad un certo punto le tue parole: "Stella, vengo", fanno strada a schizzi e schizzi di sperma. E inclini la testa, all'indietro, corrucciando la fronte. Sborri come mai hai fatto prima. Un orgasmo talmente intenso che urli di piacere e poi muori. Stroncato. CRACK.

- Effettivamente, è uno splendido modo di morire. Facendo l'amore con la persona amata, sì. Suggestivo...

- Però, aspetta, non travisare le mie parole. La chiavata dev'essere di ottima qualità, non ne va bene una qualunque. Una mediocre non incorona questa morte come la migliore! Anche se, però, un pompino con ingoio...

mercoledì, febbraio 22, 2012

Estemporaneo

Scrivo sotto stimoli: anche la paura, lo è.
Soprattutto quando si schianta a 180 km/h contro un muro innalzato dal tuo vicino che si è appena sparato una siringa di adrenalina dritto nella coronaria.
E boom!

lunedì, febbraio 13, 2012

Questione d'età

Non ricordo tantissimo, di quando ero piccola: solo piccoli gesti, spezzoni, sprazzi di sensazioni, emozioni in pillole, frivoli desideri e temporanee passioni.

All'età di 5 anni, mia madre decise di smettere di insegnare, a scuola: iniziò a dare ripetizioni di non-so-quale-materia a bambini poco più grandi di me.
Così io, che volevo restare in sua compagnia per ascoltare la sua voce, maestosa e severa, presi un libro, a caso, da un mobile e lo poggiai per terra: era un testo d'inglese, non ho idea di quale anno scolastico, suo, di quando ancora ci andava, a scuola.
Iniziai ad imparare le parti del corpo umano, i colori, le basi di una conversazione, posata ed educata. Decisi di voler diventare insegnante d'inglese, per poter parlare ai bambini più piccoli di me con voce severa e maestosa, proprio come faceva la mia mamma.

Quando avevo 6 anni ero già in seconda elementare.
Mi iscrissero in anticipo, a scuola, sebbene non fosse necessario. I miei pensavano fosse uno spreco lasciarmi giocare ancora con le costruzioni.
Trovai un libro di matematica, dallo stesso mobile, e divenne una droga.
L'insegnante di matematica, volevo essere da grande, sì.
Ricordo che mia mamma ne era talmente entusiasta che mi fece da mentore, lei, colosso laureato in economia e commercio che nella vita decise di fare tutt'altro.

Mio padre mi regalò una tavola periodica, plastificata, enorme, all'età di 7 anni: fu un regalo bellissimo. L'appesi proprio sopra la testata del mio letto. Ero così fiera, di quel regalo.
Qualche mese prima, innescare reazioni basilari fra miscele trovate in giro per casa, era diventata la mia passione. Mio padre era tecnico di laboratorio presso un'industria conserviera e adorava insegnarmi tutto quello che sapeva.
Adorava aiutarmi in tutte le mie piccole manie. Adorava seguirmi, in quelle poche ore in cui non lavorava. Adorava il suo piccolo strano esserino, alla quale aveva donato la vita e l'omonimia.
Decidetti così di iscrivermi all'istituto tecnico industriale pensando di proseguire gli studi, alla scelta della specializzazione, nel settore chimico.

All'età di 8 anni, ricordo che un giorno di febbraio - a posteriori decidetti che era il 25 febbraio - ero in casa, ad ascoltare “Betty Blu” da uno stereo quando suonano alla porta. Mia nonna si appresta ad aprire ed entrano i miei genitori, preceduti dal mio fratellino, Andrea, con in mano una scatola.
Dentro c'era un piccolo cucciolo, nero, con una lisca di pesce bianca sul petto. Un cagnolino dolcissimo, una femminuccia. Proposi di chiamarla Lilly. Mio fratello acconsentì, e Lilly fu. Mi appassionai tantissimo agli animali ed iniziai a sviluppare una malsana teoria. Iniziai, inoltre, a stimarli molto più delle persone, mendaci e traditrici. L'amore non si è mai estinto. Decisi di diventare veterinario, e dedicare la mia vita alla cura delle creature più deboli, schiacciate dalla violenza e dall'inciviltà dell'uomo.

Qui si interrompono i ricordi, o meglio, quelli relativi al concetto che volevo esprimere.

In questo preciso istante, l'anno corrente è il 2012.
Non ho più 5 anni.
Non ne ho nemmeno 6, tanto meno 7 oppure 8.
Ho abbandonato il proposito di diventare insegnante d'inglese o di matematica.
Ho deciso di non proseguire con la chimica, alla scelta dell'indirizzo specialistico.
Ho abbandonato ogni proposito di diventare veterinario.

L'unica cosa certa è che sono qui, con le spalle al muro e non so più né chi sono né cosa voglio essere.

domenica, febbraio 12, 2012

Un addio

Melanie: "Anche se fossi l'uomo fatto per me, anche se fossi l'amore della mia vita, sono certa che scapperei ugualmente, da te. Oh John, io ero sposata, una volta, anni fa. Ero molto molto felice e sono scappata."

John: "Perché?"

M: "Perché non so fare altro. Le cose si appiattiscono, si normalizzano, c'è l'appagamento. E allora io scappo. Dei bambini, sicuramente tu pensavi, sarebbe stato per sempre, prima di...
Io ti amo davvero. Non vorrei andarmene, né oggi né domani, ma so che dovrò farlo un giorno."

J: "Non ti capisco. Prima dici di amare una persona e poi, poi dici... ahhh"

M: "E' che purtroppo, sono fatta così. Ti avevo promesso di cambiare, ci ho provato, ci provo, ci proverò, sono già cambiata. Ma so che un giorno scapperò lontano da te."

J: "Beh, allora forse prima che soffriamo troppo, potresti, ehm, andartene oggi."


Ally McBeal - 4x15 - Detroit e ritorno

venerdì, febbraio 10, 2012

Cuore nero


Lacerami il cuore, te ne prego.
Sevizia ogni singola parte di me.
Stupra il mio cervello, ossigenalo, e poi fustigalo, ancora ed ancora.
Estirpami la memoria. Impossessati dell'anima. Cercala, prima, l'anima.

Prendi il mio cuore, strappalo dal petto, e scaglialo con foga contro la parete. Guardalo. Osservalo. Studialo. Poi, lancialo.
Nota i dettagli: essi costituiscono la struttura di ciò che di me resta, dopo la guerra, di ciò che di me non vedi - e mai vedrai - né percepisci.
Ammiralo, in tutta la sua instabilità. La sua struttura è simile a quella di un prisma, dagli spigoli posizionati irregolarmente, nevroticamente, in un assetto casuale e fitto: un fitto intreccio di spigoli, è il mio cuore.
Sembra un riccio, dalla squamosa superficie.
E' un carapce, dalla forma irregolare di un simil-prisma.

LANCIALO!

La scia rosso sangue ti imbratta la faccia, lasciandoti un sapore acre, sulle tue labbra.
Un sapore che penetra nella tua testa; che terribile lancinante dolore, provi: nel cuore, nello stomaco, nell'intestino che pulsa come se avesse vita propria. Produci bile, e quel sapore è così nauseante che corri a cercare dell'acqua per lavar via anche il ricordo, di quella terribile sensazione.

Il cuore si schianta contro la parete, in un impeto di disumana rabbia, di ingiustificata violenza.
Chiazze di sangue coagulato imbrattano la tinta unita, di bianco candido costituita, contro la quale ha urtato, quel povero cuore.
Si attacca al muro, come una melma viscida omogenea e compatta.
Si deforma, a causa dell'urto, e si ristabilizza in pochissimi attimi.
Scivola, giù, lungo l'intonaco, lentamente.

Impegnato in un'affannosa ricerca, preghi di trovare dell'acqua, o dell'alcool.
Ansimi con una frequenza incalzante ed il dolore diventa acuto, sempre più acuto. Lancinanti fitte alla gola. Credi di morire. Speri di morire.
Acido. Il sapore acido che ti sta entrando nel sangue è come la nicotina, come l'eroina: come la più viscida e subdola delle droghe.
Aria, manca l'aria. Manca l'acqua. Manca l'alcool, non importa sotto quale forma. Anche l'etilico, va bene. In tal caso, ti appiccheresti fuoco, pur di non soffrire così. Acido, macabro sapore. Ti entra nelle gengive.

Quel cuore continua a scivolare, come una lumaca, e la scia di muco scuro di sangue coagulato imbratta l'intonaco perfetto che lascia dietro sè.

Emette una lancinante vibrazione, che ti insegue e ti raggiunge, nell'altra stanza. Aggira il padiglione, affinchè non venga incanalato, per arrivare dritto all'essenza, al tamburo, al timpano. Esplode in un boato sordo.

Un suono lacerante, simile al fastidio che provi quando un armadio enorme di metallo strìde sulle mattonelle del pavimento sulla quale sei caduto, acuisce la tua sofferenza e ti rantoli in terra. Maledetta velocità del suono.
Ti ha raggirato e alle spalle ti ha assalito, mentre frugavi in ogni anta di questa casa, alla ricerca di un liquido che ti potesse togliere quell'acre sapore e guarire dalle mille malattie che ora ti pervadono, come chiara e pulita conseguenza dello schizzo insanguinato di scuro e torbido veleno.

Amore come forma d'altruismo

"[...] Siamo due persone diverse, con interessi diversi. Riferiamoci ai tuoi gesti, alle tue decisioni, ad esempio: io non posso che lasciarti fare quello che vuoi, preservando l'affetto, con la speranza di non perderti definitivamente.
I sentimenti non si dirottano, e tu lo sai. Io lascio che facciano il loro corso, con i loro tempi, e nelle direzioni da te volute.
Non ho intenzione di intromettermi in alcun modo: ti amo, sei una persona amata, da me, sicuramente ma non per questo posseduta - a meno che non sia tu a chiedermelo.
Sei libera di pensare, scegliere. Sei libera di agire.
Non sono in grado di definire l'amore: sono solo in grado di viverlo, e provarlo sulla mia pelle; ed è inutile provare a combattere moti passionali.
Ciò mi renderebbe oppressivo nei tuoi confronti.
Implicherebbe tener legata una cosa che non mi appartiene, ma che di sua spontanea volontà, ha deciso di stare con me, e amarmi.
Non ha senso, ti rendi conto, l'uomo geloso, l'uomo egoista, l'uomo virile che si fa rispettare, l'uomo, l'uomo e sempre l'uomo? E la donna?
Sono tutti stereotipi fallocentrici, e penso che una persona, a prescindere dal proprio genere, abbia il diritto di scegliere e decidere ciò che è meglio per se stessa, ciò che la fa stare bene.
Io ho scelto di essere altruista e disponibile con la gente.
Ho scelto di essere altruista con te, in particolare.
A te fa stare bene passare le serate a ballare, oppure al dipartimento. Oppure a letto con qualcuno.
A me fanno stare bene altre cose, che non si rispecchiano nelle tue, ma non è necessario che tu ti senta sotto pressione.
Sei una persona libera, ed io di questo, mi sono innamorato: di un cavallo selvaggio. [...]"

Ringrazio, di tutto cuore C., per i lunghi discorsi e per le singole parole, per il cuore e il cervello, per la mente, lo spirito e l'indipendenza, per la sincerità - nuda e cruda -, per la sintonia, per le risate e per le sorprese, per le lacrime e per gli abbracci, per il sesso violento e per le coccole dopo l'amplesso. Per tutto quello che è, e che io non sarò mai. Per essere il mio alterego, e l'unica persona che sa darmi quello che voglio senza chiedere mai niente in cambio. Grazie.

giovedì, febbraio 09, 2012

Buongiorno

Fredda e sterile, la mia mano toglie il lenzuolo dalla tua testa.
Caldo: avverti il tepore, generato per incanto, essudare attraverso il tessuto.

La contrapposizione dei brandelli di quello che sei, è tutto ciò che ti porterai sempre dietro, nello zaino, insieme all'acqua.

La Rabbia è il tuo sentimento predominante, anche se hai deciso di cambiare, di essere diversa, di essere migliore. Ogni azione compiuta nell'innato, affannoso, vitale bisogno di preoccuparsi del prossimo, è intrisa di Rabbia, un liquido amorfo dal sulfureo odore che alla vista sembra plasma: quel po' che ti è rimasto, che pompa, impetuoso, nel tuo piccolo cuore, o in quel po' che ne è rimasto.



"Sei un caso senza speranza", dicevi continuamente a te stessa; poi hai tolto gli specchi, e hai smesso di ripeterlo.

Però lo pensi ancora, che hai buttato anni interi della tua vita ad inseguire effimeri e vacui attimi di insana felicità.
Sorseggi un caffè.
E lanci la tazzina contro il muro.

Autorivolta

Banale. Mi hai detto: "non essere banale".

Vorrei scrivere del nero che ho intorno, nella mia stanza.
Con una mano mi sfioro i capelli: quella ciocca riccia che mi cade sulla narice sinistra, la sposto.
Chiudo gli occhi e chino indietro il capo.
Raccolgo una lacrima, e penso: "com'è difficile essere me".

Vorrei renderti felice. Vorrei poter non far soffrire i tuoi occhi verdi, non esserne in grado.
In una poesia che ti scrissi, li paragonai alle immense e floride praterie dove si lasciano correre i cavalli selvaggi come me.
Raccolgo una lacrima.

Vorrei poterti abbracciare, ancora. Ancora una volta, vorrei sentire il tuo cuore battere all'unisono con il mio.
Raccolgo un'altra lacrima, e aumenta l'intensità della rabbia.

E parlo di nulla, io, Mercuzio, dicono, possibile, quasi certo anzi.
E penso che non è per sempre, niente, in questa vita.
Forse nella prossima sarà diverso, tutto diverso.
L'ho detto spesso. Lo dico spesso.
Sono convinta di quello che dico, ora no, però: sono solo troppo stanca.
E troppo piena di te.

Vorrei essere un'altra, per poterti completare; per non bastarti mai e condividere insieme a te il resto dei miei anni senza un attimo di timore.
E sono qui, con un secchio di bile, a piangere di nulla, a parlare di nulla: della paura, forse.
Alla velocità della luce mi muovo, per poter continuare a vivere.
Per la mia stupida, insensata, infantile e lacerante paura della vita!
E distruggo tutto quello che creo, per poterlo ricostruire.
Non mi piace soffermarmi ad osservare e valutare ciò che mi riguarda: penserò sempre che fa schifo, e ciò mi rende nervosa. Così distruggo, e non ci penso più. E siamo tutti contenti. Tu no, credo. Io nemmeno, giuro. Ma siamo tutti contenti.

Niente è per sempre. Nemmeno la morte.
Dimmi che è vero. Dimmi che non esiste niente intorno.
Dimmi che sono viva. Dimmi una cazzata.

Dammi uno schiaffo.

mercoledì, febbraio 08, 2012

Scegli me

Ti scappa dalle mani con un salto, un gesto inconsulto, scappa via dal tuo letto. Con il suo collo sudato ed i suoi occhi iniettati di sangue, sembra chiamarti, la stronza.
"SCEGLI ME!" - un urlo che rompe il silenzio del cielo. Rabbrividisci.
Vorresti afferrarla, prenderla, stringerla, tenerla. Vorresti soffocarla.
Se solo potessi averla fra le tue mani, un solo minuto, il tempo necessario per poter stritolare il suo gracile collo, e dipingere di lividi il suo pallore.
Vorresti gremire questo piccolo mostriciattolo, che ti spezza il fiato.
Vorresti prenderlo per i capelli, per poterlo guardare dritto nelle pupille dei suoi occhi color del legno d'acero e dirgli: "ti amo, sono qui per te. Scegli me".
Scappa, dalle tue mani. Puttana. Veloce si rintana in un antro. Sibilla.
Ivi infili le dita, dentro, agitandole come un pazzo furioso, e ti graffi.
Ti laceri - dannati contorni di pietra, irregolari ed acuminati.
Ti si lacera anche l'urlo, in gola. Si blocca e si estingue. Muore, prima di nascere. Di più, non riesci a fare e ti accasci sotto il peso della sconfitta. Crolli.
Non la prendi: è veloce, questa sporca lurida femmina. Bastarda infame.
Riprendi fiato e deglutisci, così forte che il cuore ti si stringe in una morsa. Sanguini, come una colata di lava. Ti chini, poggi le labbra nella fessura.
Urli: "SCEGLI ME!".

mercoledì, febbraio 01, 2012

Parafrasi per dementi

Mi piace moltissimo parlare con le persone; la parte che preferisco è quando sono loro, a parlare con me.

Mi piace scrutarle. Mi piace quando gesticolano e quando dissimulano.
Mi piace il suono della voce, soprattutto se maschile: profonda, sensuale.
Mi piace l'espressività degli occhi. Mi piace l'empatia che provo nel guardarli, gli occhi. Mi piace il taglio della bocca, soprattutto quando sorride.

Mi piace il suono delle risate. Mi piace percepire la rabbia, temere di tutta la possenza sprigionata dall'odio, devastante. Mi piace osservare, a rallentatore, l'espressione del viso che da corrucciata, si rasserena.
Mi piacciono le rughe di espressione, mi piace la mimica facciale.

Mi piace accarezzare i capelli, dare una pacca sulla spalla, abbracciare fino a togliere il respiro. Mi piace essere guardata, e sentire il sangue raggelare.
Mi piace godere degli attimi in cui mi regalano un sorriso, e a tal proposito non ho ancora ben capito se è più fortunato chi lo riceve o chi lo procura, il sorriso.
Mi piace sentirmi serena, ed imbottirmi di effimera felicità da inalare.

Mi piacerebbe poterti aiutare. Mi piacerebbe potermi aiutare.
Mi piacerebbe poter essere quello di cui tutti hanno bisogno, al fine di riempire il vuoto che sento dentro.



Mi piace moltissimo parlare con le persone, stabilire con loro un contatto.
Lo trovo completo e stimolante, come amare e scopare. Sì, completo e totale. Assaporare tutto ciò che l'altro ti dà per supporre tutto quello che invece cela. Incuriorirsi ed innamorarsi, dell'altro; ed esplorare il mondo che porta con sé.

Questo blog non dà a me la possibilità di toccarti e a te, la possibilità di capirmi,
ma verrò incontro in maniera ridotta, ossia scrivendo, alle tue ridotte facoltà percettive, al tuo scarso impegno e dedizione e alla tua pigrizia.

Questo blog non ti darà la possibilità di guardarmi, mentre mi spoglio.
Ed io non conoscerò mai le tue reazioni, lontane, perché sarai sempre dietro uno schermo.
E tu, non conoscerai mai l'amore e il dolore con cui passeggio per strada, tutti i giorni, perché non incrocerai mai il mio sguardo.
E se un giorno sarai così sfortunato da riuscire a guardarmi, dritto nelle pupille dei miei occhi color merda, non leggere, bensì scuoti il capo e dimmi: "mi spiace, ma sono analfabeta".

Non chiedere, dunque, se non vuoi realmente sapere: se non sei abbastanza maturo da accettare le conseguenze.
Non interessarti a me, se non sei disposto ad impegnarti, ad ascoltarmi e a comprendermi: non si può vivere di leggerezza, "la leggerezza è un reato", mi hanno detto.
Eppure mi incontri per strada ed urti la mia spalla, e prosegui, dritto verso la tua stupida, vacua, meta. E quando l'avrai raggiunta, nemmeno allora, ti ricorderai di avermi urtato. Perché sono invisibile. Sono il tuo giullare. Colei che indossa la maschera di Arlecchino e si dipinge di mille colori il corpo, nudo.
Ma tu non ti accorgi che la base dell'acrilico è il sangue dei miei ricordi e le piastrine del mio presente. Ed il colore, si attacca, su di me, come l'angoscia del futuro che mi ottenebra la mente. E la ottenebra anche a te.
E siamo così sfiduciati ed insicuri, che abbiamo paura che ci possano ferire ancora. Ma che male puoi farmi, se nemmeno ti accorgi di me?


"Adoro le persone che mi fanno ridere. Penso che ridere sia la cosa che mi piace di più. E' la cura per moltissimi mali."
(Audrey Hepburn)