sabato, aprile 28, 2012

Richiesto esonero dalla fisica attività di schiavo

Mentire, sempre e comunque.
La sincerità e l'onestà sono un invito a ricevere calci in bocca, gratuitamente.
"Vuoi essere preso a calci, brutto figlio di puttana? No, eh? Allora sparisci e non farti più vedere!"
Scusate, un coglione mi si è avvicinato per chiedere un'informazione, ed io non avevo voglia di vedere gente.
Non mi piace, la gente.

Dicevo... Ah, sì, mentire. Mentire spudoratamente, costantemente, implacabilmente.
Schiacciate le persone come foste un rullo compressore: dite loro che le amate.
Prendetevi, poi, gioco delle loro paure, manipolatele e tramutatele in pressanti angosce: dite loro che le amate.
Vi sentirete bene, un sacco bene. Vi sentirete bene come soltanto pisciare su una margherita, vi fa sentire.

Tirate di coca. E non fate quella faccia. E' la prassi. Dovete darmi retta, voci affidabili mi hanno detto che è la soluzione a tutti i problemi, la coca. Anche l'alcool, in realtà, ma non vi farebbe abbastanza del male.

Si prosegue dando la colpa di tutto, ma proprio tutto, quello che fate, siete, pensate e quant'altro, agli ormoni e alla genetica, un po' come nell'Ottocento si faceva con l'isteria.
Siete dei falliti e degli inetti? Colpa della genetica!
Non riuscite a sedare la rabbia che vi scorre incontrollata nelle vene mentre prendete a cazzotti una faccia di merda solo perché aveva osato chiedervi se era già passato l'autobus delle 11.10? Colpa degli ormoni!

Tirate per aria la giacca, alle vostre spalle, e fregatevene della fine che farà, non vi servirà più.
Prendete fiato, chiudete gli occhi. Tirate fuori dalla tasca il cellulare e lanciatelo. Lanciatelo, forte, davanti a voi, il più lontano possibile. Ripetete l'azione con il pacchetto di sigarette, tolto dall'altra tasca. Urlate. Forte, fortissimo. Urlate più forte che potete. Urlate per cinque secondi. Spaccatevi i timpani.
Smettete. Aprite gli occhi, iniziate a correre.

Correte veloce, sempre più veloce. Non ci sono scuse, è la prassi, dovete farlo.
Per venire incontro alle vostre ridotte capacità motorie, abbiamo predisposto come limite della corsa, un tragitto di una trentina di metri.

Ora, la corsa terminerà, ma prima piazzate bene un piede, saldo sul terreno. Datevi uno slancio, in avanti. Dovete arrivate a toccare l'orizzonte, così lontano. Ci vuole un perfetto slancio, per arrivare a toccare l'orizzonte. E voi volete darvi quel fottuto perfetto slancio. Saltate.

Mentre volerete, in attesa di schiantarvi sulle acuminate rocce sottostanti, strafatti di coca, e con le lacrime agli occhi, vi sentirete liberi. Finalmente, fottutamente liberi.

E da morti, né la genetica, né gli ormoni, potranno più soggiogarvi.

venerdì, aprile 27, 2012

La vita è un campo minato

La maggior parte delle volte che conosci qualcuno, resti ammaliato dal suono della voce, dalla profondità degli occhi, dall'estro schizzato fuori dal poderoso acuto della risata!
Quando ti ho conosciuto, invece, sono rimasta incantata nell'osservare l'insolita, schizofrenica, ampia gestualità del corpo, in netta contrapposizione con lo sguardo spento e malinconico.

Inconcludente insoddisfazione

Vorrei poter disporre di foglio e penna, ogni qualvolta partorisco un'idea.
Vorrei poterne disporre anche quando riesco a formulare, nella mia mente, una gradevole frase sintatticamente corretta, per poterne sviluppare il concetto intrinseco.
Invece, non ce li ho mai a portata di mano! Ammetto, però malvolentieri, che spesso accade di averli a pochi passi. Purtroppo, il tempo necessario a raggiungerli, coincide con quello necessario a distrarsi e dimenticare; le due azioni si fondono ed in mano stringo il foglio mentre in mente ho liberato le idee.
Vorrei porre ora l'attenzione su alcune caratteristiche che uno scrittore non deve avere, non tutte insieme, almeno: pragmatismo e dono della sintesi; esse formano un connubio orribile, instabile, mal strutturato e dannoso per la psiche dell'individuo che li possiede, entrambi. Se ci si aggiunge anche l'Alzheimer precoce, diventa un rito orgiastico di pessimo gusto, decisamente: lo prova il fatto che la maggior parte delle mie frasi, a ragion veduta, terminano con "Fanculo!".
Esclamo così un estemporaneo "Fanculo!", ogni qualvolta perdo di vista l'argomento di cui volevo trattare mentre scrivo la prima parola.
Odio iniziare. Odio iniziare a scrivere. Succedeva anche durante i temi in classe, a scuola. Continuamente.
Odiavo i temi in classe. Alla fine ne tiravo fuori un bel trattato, ma con quanta fatica! Tre ore a disposizione, di cui le prime due passate a guardare gli altri affannarsi sulle carte. A volte guardavo il professore. Lo fissavo proprio, mentre tenevo la testa fra le mani. Volevo fargli capire che non avevo nessuna voglia di svolgere quel dannato tema in classe e che non me ne fregava un accidenti, di niente. Ma a lui, fregava ancora meno, così era sempre il vincitore di quella guerra fredda, il bastardo. Al termine della seconda ora mi rassegnavo e iniziavo a lavorare, direttamente in bella copia, consapevole di non aver il tempo necessario per riguardare il compito.
Odio gli inizi, di ogni cosa. Anzi, di tutte le cose meno che una. Adoro l'inizio di un amore. E' la parte più fica!
A parte questo, non ho mai avuto né voglia, né stimoli, né interesse per le novità. So che ho detto una cazzata, lo so. Ma non lo è integralmente, su. Nel senso, è parzialmente vero. Dipende da come mi gira.
Tornando alle cose che detesto, però, forse odio ancora di più trarre conclusioni da azioni terminate. Che spreco di tempo. Non so mai da dove iniziare quando devo finire! Figurati, quanto interesse ho nel dover riprendere in mano tutto per tirarne le somme. Che spreco infinito del poco tempo che abbiamo.
Credo che l'odio covato derivi dalla mia distrazione, che mi porta a non terminare mai le cose iniziate. Non subito, almeno. Non quando dovrei.

mercoledì, aprile 11, 2012

Non dimenticarmi

Ti ricordi di quella volta in macchina, del nonno che guidava, della tua incoscienza e della mia illuminazione?

Ti ricordi dei matrimoni, dei veli, delle promesse di amore eterno, del messaggio lasciatoci?

Ti ricordi di tutti quei calci dati ad un pallone, tirato contro il muro o la faccia di tua sorella?

Ti ricordi del gioco delle renne, dei pattini - in casa?

Ti ricordi dei fili d'erba, dei guinzagli con collare costruiti per poter portare a spasso un altro animale?

Ti ricordi delle montagne di terra, dei dossi e delle cunette, della BMX gialla, delle gare?

Ti ricordi delle discese, dal fiume al garage, in bici e con i pattini?

Ti ricordi di quella precisa ripida discesa, della bici rossa, del paese confinante, dei freni non funzionanti, dello spavento?

Ti ricordi dei due camper, affiancati, per rendere una piccola città, grande abbastanza da poterci vivere insieme?

Ti ricordi dei piccoli pupazzetti, dei pacchetti di fazzoletti, dei banchi, dei
dialoghi e della noia che ti assaliva in quel gioco, che facevi per rendermi felice?

Ti ricordi della coalizione contro il "nanetto inferocito"?

Ti ricordi di quella volta che restammo tutta la notte abbracciati, soli in casa, perché spaventati dal film dei dinosauri?

Ti ricordi del gruppo di Batman&Co., nel garage e nella cantina con te, sempre a difendere il bene?

Ti ricordi della Jamaica, degli insegnamenti, degli esami superati?

Ti ricordi del cartone del figlio degli Dei, dell'enorme cuscino di spugna e della sottile "tàccara di lignàmi"?

Ti ricordi delle spinte contro il materasso, tu sdraiato a pancia in giù ed io sopra di te, e delle sonore risate?

Ti ricordi delle liti, delle ore concesse al pc, del furto del mouse, dell'ingegnoso uso della tastiera?

Ti ricordi di quel gioco, della paura causataci da un lupo sbucato dal nulla pronto ad avventarsi al collo della giovane eroina da noi, maldestramente, guidata, della botta in terra che facemmo, della promessa di non giocarci più?

Ti ricordi di tutto ciò che abbiamo insieme vissuto, che non è strano, ivi, intelligibilmente trascritto?


Ti ricordi dell'incendio?
Non dimenticare mai niente, ragazzo: sebbene tutto ciò che di materiale ci ha cresciuto, ora non esiste più, io e te siamo ancora gli stessi, soltanto divisi.

martedì, aprile 10, 2012

Tutto, tranne la piña colada

- Fammi qualcosa di forte, stronzo. Mio marito mi ha tradito con una sporca puttana bionda, una sciacquetta da quattro soldi con gli occhi da cerbiatta.

Siamo alle Maldive e questa strana tizia, che farfuglia offese e accuse, ha preso un aereo per andarsi a sbronzare.
Dall'altro capo del mondo.
Per un uomo. Mah.
Dovevano partire insieme, per vendere cocktail di ogni tipo, tranne la piña colada, in una spiaggia tropicale.
Dovevano fuggire da un altro uomo, lei e il bastardo che alla fine si è sposata.

- Fammi un cazzo di cocktail, feccia.
- Signora, sarebbe meglio per lei se la smettesse immediatamente di offendere. Non le servo proprio niente e tenga bene a mente che non è affatto colpa mia se la sua vita fa schifo!
- Allora sciacquati fuori dalle palle, ragazzino. Lo faccio io, un cazzo di blowjob. Ho bisogno d'ingoiare qualcosa di forte, adesso.

domenica, aprile 08, 2012

Questioni cromatiche

La mia psiche turbata reputa l'accostamento cromatico bianco-verde acqua troppo delicato.
Ultimamente, però, ha iniziato a rivalutare la combinazione rosso-nero, da lei tanto osannata.

Onestamente, quest'ultima, resta ancora una singolare accoppiata, sebbene sia diventata un po' mainstream di questi tempi, perdendo il suo fascino iniziale.
Il nero è un colore impegnativo: riuscire ad osservarlo per un tempo prolungato richiede un allenamento, della retina e dei bastoncelli dell'occhio, costante nel tempo.
E la costanza non ci piace per niente - ove il plurale maiestatis, si riferisce ad entrambe le mie personalità, stranamente in accordo, almeno su questo punto!
Il rosso per contrapposizione, invece, non richiede alcun impegno di focalizzazione: è un colore che invade il campo visivo, stuprando il cervello riducendolo ad esanime vegetale.

La loro unione, per risultare gradevole, deve adempiere ad una lista di caratteristiche ben precise, di cui, al momento, non si ha memoria: una di esse è la disposizione dei soggetti in gioco.

Disporre i colori, non importa l'ordine, all'interno di rettangoli distinti, paralleli, più alti che larghi, in verticale, genera una disfunzione cardiaca quasi istantanea. Lo stacco netto, che costringe lo sguardo a saltare in maniera troppo rapida fra i due, risulta oneroso da metabolizzare, affaticando eccessivamente gli occhi, che iniziano a richiedere un afflusso di sangue sempre maggiore, sovraccaricando la pompa vitale che cerca, invano, di essere all'altezza di un compito così arduo.
Esito finale: sopraggiunge, inesorabile, la morte dell'individuo.

E' facile intuire, per cui lasciamo la dimostrazione per esercizio al lettore, che la stessa cosa accade anche nel caso in cui i rettangoli sono posti orizzontalmente, paralleli, con larghezza maggiore rispetto all'altezza.

E' un connubio letale, questa malsana unione cromatica.

Sarebbe meglio se mi convertissi all'adulazione della combinazione bianco-verde acqua che, sebbene sia troppo delicata per essere apprezzata dall'insanità mentale che mi contraddistingue, potrebbe rivelarsi l'unica via d'uscita disponibile.

venerdì, aprile 06, 2012

Parlo io o parli tu? E parla tu!

Non bisogna mai perdere alcuna occasione per parlare di se stessi. Mai.

Dobbiamo renderci conto che è giunto il momento d'iniziare a sfruttare tutti gli slanci di disponibilità al dialogo – meglio se ascolto – che riceviamo dalle persone: a loro non frega assolutamente niente di quel che abbiamo da dire per cui, attacchiamo!
Occorre, dunque, sfruttare ogni ipocrita "come stai?" oppure "cosa hai fatto oggi?", di cortesia, per stordire il bastardo di parole: non importa nemmeno che esse abbiano un qualche recondito senso! - tanto, dopo un paio di minuti, lo stronzo smette di ascoltarci, a maggior ragione se non gli diamo modo di intervenire. Per dirci la sua opinione. Non richiesta. Inopportuna.
Per poi raccontarci di sé.
Fanculo.

La gente si disinteressa di quello che diciamo dopo soli sessantanove secondi di monologo da parte nostra.
Tutto ciò accade, soprattutto, nei momenti in cui l'unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è essere ascoltati un pochino; quando invece, ad esempio, parliamo di una cosa di cui non c'importa assolutamente niente, l'interlocutore è stranamente catturato da un rinnovato senso d'interesse e, rapito, ci osserva a bocca aperta e ci lascia discorrere. Stronzo.
Fanculo. Di nuovo.

Le persone vogliono solo parlare di sé: porca miseria, però ne abbiamo bisogno anche noi! Sarà mai possibile ottenere un minimo di collaborazione, in questo mondo di vanitosi egocentrici? Mah.
Fanculo. E so' tre!

- Ho questo problema X che non riesco a risolvere perché mi fa sentire Y.
- Uh, ho vissuto la tua stessa situazione! Praticamente io bla bla bla.

ESPLODI! ORA!

E così, poveri abbandonati reietti, malediciamo tutti i martiri del calendario perchè volevamo solo essere ascoltati una buona santa volta.
E così mettiamo il muso. Giustamente, vorrei anche aggiungere!

A questo punto, la merda se ne accorge, e ci chiede se è tutto ok.
Ma lui è furbo, ne sa mille in più di noi: alla bestia basta un "sì certo, perché me lo chiedi? E' tutto ok!" come risposta, per pulirsi la coscienza!
Egli potrà, quindi, solennemente annunciare:
- Io mi sono interessato a te. Ti ho chiesto se era tutto ok. Tu hai risposto “sì, certo”. Quindi, mi spiace, ma io ho fatto tutto ciò che era in mio potere.

ESPLODI! ORA!
Poi, sui tuoi resti, devono cagarci i piccioni.
Fanculo. Quattro: il porco.

L'unica cosa che volevamo era parlare di noi e di questo nostro, dannato, infame problema! Volevamo solo esporci per attirare l'attenzione, ed essere ascoltati!

In realtà, se proprio vogliamo essere pignoli, il nostro gesto ha funzionato!
Se ci soffermiamo sul risultato ottenuto, possiamo notare che l'altro si è avvicinato a noi, catturato dalle nostre parole, e ha colto la palla al balzo per poi, SBADABAM, parlare di sé e ancora di sé! Dannazione!

Vogliamo parlare poi delle conversazioni parallele?
Sono quei tipi di discorsi in cui a nessuno degli interlocutori interessa sul serio quello che hanno da dire gli altri coinvolti.
Sono quei tipi di discorsi che viaggiano su binari paralleli, come un-parlare-da-soli: in fondo, l'unica cosa importante, a quanto pare, è parlare.

L'ascolto, conservalo per qualcun altro.

Una conversazione parallela può essere questa:
- Vieni a combattere gli sbalzi d'umore in cavalieri, Bi?
- Nono, resto a casa.
- Mi hanno appena ucciso da sceriffo, bu.
- Ahahahahhah! Sono contenta!
- Ti lascio con una dolcissima buonanotte, per accompagnare il diabete.

Ci sono momenti in cui inizi a gesticolare come un pupazzo in legno con la cordicella che, tirandola, fa muovere gambe e braccia, come se si volesse creare un angelo nella neve, cercando disperatamente di attirare l'attenzione del mondo. A questo punto, se l'unica cosa che ottieni è un: "ci sentiamo domani, buonanotte!", cosa fai? Niente!
A parte: imprecare sottovoce; fare spallucce; dire "sticazzi!"; ricordarsi che dopo il quattro, segue il cinque per poter dire:
Fanculo.

Per ricollegarci ad un discorso precedentemente introdotto, quando sei preso da un momento di euforia e speranza in cui decidi di esporti, bene!, non farlo!, ripensaci finché sei in tempo: non porgere la guancia se non vuoi ricevere uno schiaffo che ti faccia volare fuori dalla bocca i canini del lato esposto.

Come ha detto una volta mio cugino: "è quando sei pronto a mettere la mano sul fuoco, che ti bruci!"

La Fame Di Camilla - La Mia Parte Più Debole

domenica, aprile 01, 2012

Il padre di Alessandra

Alessandra, all'epoca in cui vi racconto questo aneddoto, aveva 19 anni, un pensiero fisso per la testa ed una risata diabolica.

Alessandra adesso ha 23 anni.
Il pensiero fisso è diventato un rimorso, o un rimpianto, non lo sa ancora in realtà.
La sua risata si è dissolta nel tempo, perdendo d'intensità il suono.

Aveva un cuore enorme, Alessandra: anche quello disciolto nell'acido.
Aveva degli ideali, lei, povera piccola adolescente che credeva di poter rigirare il mondo come un calzino, al fine di trovarne una parte pura, pulita.
Allo stato attuale delle cose, della piccola Alessandra non vi sono tracce, sebbene i cantastorie narrino, in giro per i paesi, di aver udito l'eco straziante della sua torva risata.
Pare sia scappata via per inseguire strani ideali, in dimensioni parallele: dimensioni che non esistevano già più, quando compì l'insano gesto.
La nostra supposizione non ha fondamento, è vero, ma non dispone neppure di tangibili prove che la confutano, però.

Era un giorno un po' strano, ricordo.
Era un giorno perso nel tempo, tanti anni or sono.
Ricordo un po' male, in realtà, quel giorno un po' strano perso nel tempo.
C'era un lungo tavolo, mi sembra, al centro di una stanza gigantesca, quasi vuota, ove ci saranno stati al più due quadri appesi alle pareti, raffiguranti paesaggi primaverili, così demodé.

Alessandra era posta in piedi ad un capo del tavolo e stringeva le mani in due pugni di ferro che avrebbero potuto, se solo avessero voluto, spaccare il tavolo in due parti, longitudinalmente.
All'altro capo, impassibile, freddo, sedeva il padre, il cui nome non è importante ai fini della storia.
Alessandra urlava e con i pugni poggiati sul legno del tavolo, conficcava le sue unghie, lunghe e nere, nella carne viva dei palmi.

Non perdeva sangue, sangue non ne aveva.
Non può avere sangue, un essere così spregevole, un essere senza cuore.
Pompava veleno, il suo cervello, inibito dall'alcool.

Alessandra urlava, frasi sconnesse e piene di rancore. Frasi senza un tempo e senza un luogo. Frasi senza un soggetto.
Il padre sedeva di fronte a lei, all'altro capo del lungo tavolo, e la guardava sbraitare, con le braccia conserte.
Le ricordava sua moglie, prima che scappasse con quello stronzo del suo vicino di banco, ai tempi delle elementari.

Gran brutta troia.
Gran figlio di puttana.
Avrebbe voluto abbracciarla, la sua piccola implicazione di carne e veleno, ma la sua pigrizia glielo impediva.
Era un gran brutto coglione che aveva cercato per diciannove anni di tenere a sé una gran brutta troia per poi farsela fottere da un gran figlio di puttana.

Alessandra voleva solo farsi ascoltare e capire dall'unico uomo che avesse mai amato, e che non l'aveva mai amata abbastanza.